LA TESTIMONIANZA DI ELENA MIBOLI

Lavorare con richiedenti asilo e rifugiati politici

Dott.ssa Elena Miboli
Psicologa Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale
Perfezionamento in psicologia ospedaliera
Master in Schema Therapy per il trattamento dei disturbi di personalità
Esperta in Ipnosi Clinica Ericksoniana – formata presso il M. Erickson Institute di Torino
 
 
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel Dicembre 1948 così recita negli articoli 1 e 2: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” e inoltre “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati”.
Ho iniziato a lavorare per il progetto SPRAR nel maggio del 2011 e ascoltando storia dopo storia di uomini che arrivano da “lontano” mi sono resa conto di quanto i diritti umani siano violati con una freddezza “non umana”. S.P.R.A.R. è l’acronimo di sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Lo S.P.R.A.R. è costituito dalla rete degli enti locali con l’obiettivo di realizzare progetti di accoglienza integrata grazie al Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell’Asilo. Il fine del progetto è di fornire un’accoglienza integrata ai ragazzi che arrivano sul territorio italiano perché vittime di persecuzioni nel loro Paese di origine. Quali motivazioni possono spingere una persona a fuggire dalla propria terra? Sono persone sradicate dal loro Paese, dalla famiglia e dagli affetti contro la loro volontà, perché decidono di ribellarsi al regime, o perché omosessuali, o perché appartenenti ad un’etnia considerata “non adeguata” per il governo. La dimensione psicologica dei richiedenti asilo che arrivano in Italia è ancora da scoprire completamente, sebbene si faccia riferimento a livello diagnostico a disturbo post-traumatico da stress, disturbi depressivi, disturbi del sonno di grave entità o disturbo dell’adattamento con umore depresso. Fermarsi all’aspetto diagnostico non rispetta la complessità della problematica psico-sociale. Questo è  uno dei motivi che ha permesso a chi ha creato il progetto S.P.R.A.R. di prevedere la costituzione di un’equipe che segue i richiedenti asilo sotto diversi punti di vista: legale, educativo, sociale, psicologico. Le figure professionali rappresentanti tali funzioni, con l’aiuto del mediatore culturale, lavorano costantemente a fianco dei ragazzi per fornire loro un’accoglienza, un accompagnamento ed un supporto adeguati. Il progetto S.P.R.A.R. di Piacenza, fa riferimento alla Cooperativa Sociale l’Ippogrifo e al Comune stesso, rappresentato dall’assistente sociale dell’ufficio stranieri. Gli obiettivi del progetto sono: il raggiungimento del benessere psico-fisico, l’apprendimento della lingua italiana e la ricerca del lavoro, i quali vengono quotidianamente ricordati dalle numerose comunicazioni che avvengono all’interno dell’equipe, al fine di utilizzare mezzi idonei al loro raggiungimento. Il raggiungimento di tali obiettivi è difficile e necessita spesso e volentieri di discussioni e messa in discussione dei propri modi di essere, dei propri pregiudizi “nel senso ampio del termine” e di ciò che ognuno di noi mette all’interno del gruppo, poiché il progetto è disegnato su ogni persona che arriva e l’interazione con persone diverse attiva schemi differenti in ciascun operatore. Infatti, il primo scopo personale e condiviso è di fare sentire “persone” coloro che per un po’ non sono state considerate tali. In situazioni di tortura, la mente pertanto, mette in atto meccanismi di difesa che permettono alle persone di sopravvivere. E’ pertanto fondamentale capire quali sono le loro paure, i loro traumi, per ricostruire nuovi obiettivi al momento giusto, che  possono essere raggiunti solo quando inizieranno a fidarsi di se stessi e del prossimo e di chi si può prendere cura di loro.
All’inizio del mio operato nel progetto S.P.R.A.R., procedevo attraverso colloqui psicoterapeutici non utilizzando l’Ipnosi Eriksoniana,  per  timore di non sapere come gli utenti avrebbero reagito a tale proposta, molto distante dalla loro cultura (Afganistan, Iraq, Nigeria,.). Dal punto di vista educativo, l’aspetto emotivo non viene tenuto in considerazione nelle culture africane e medio-orientali, per cui, per me terapeuta, la fatica è doppia ogni volta: far loro accettare e prendere confidenza con questa parte di sé, e fidarsi di me terapeuta donna.  Inaspettatamente, per tutti, in particolare per M., lavorare con l’ipnosi è stata una piacevole sorpresa e scoperta, seppur ricca di sofferenza, finalizzata ad un definitivo benessere. La valutazione iniziale di alcuni casi infatti, aveva contemplato l’utilizzo di psicofarmaci al fine di migliorare il benessere psicologico, in quanto le patologie impedivano agli ospiti di pensare al futuro e quindi mettere in atto le risorse utili per raggiungere un’integrazione positiva. Utilizzando l’Ipnosi si è riscontrato che la ricaduta positiva è immediata sui ragazzi, per cui, l’approccio farmacologico viene utilizzato di rado e solo quando gli ospiti erano già in trattamento (Tre utenti su circa 50).
 
STORIA DI UN UOMO CHE ARRIVO’ IN ITALIA
M. è un ragazzo Sudanese di 25 anni. Racconta di aver vissuto serenamente con la sua famiglia, composta dai genitori e quattro sorelle fino all’autunno del 2003, quando  il Governo decise di invadere e distruggere il Darfur, considerata terra facente parte dell’opposizione governativa.  I sopravvissuti al massacro, scapparono, in altre terre e M. con la sua famiglia si rifugiarono a K, considerata città filogovernativa.
Dopo poco, il Governo invase anche quella città, devastandola e imprigionando diverse persone, tra cui lo stesso M., al quale era stata concessa la libertà vigilata per le ore notturne dopo tre mesi. Durante i primi tre mesi di prigionia, subì torture e violenze fisiche delle quali porta ancora i segni: bruciature, scariche elettriche, bastonate. Fu anche incatenato per diversi giorni. Nonostante la libertà notturna concessa ai detenuti, il Governo, attraverso la minaccia: “se scappi, ammazziamo la tua famiglia”, riusciva a garantire il ritorno dei detenuti al carcere la mattina seguente.
Nel luglio del 2003 riuscì a fuggire dal carcere con altre due persone in direzione J., che fino a luglio 2005 fu in mano ad una maggiore resistenza popolare, in grado di bloccare gli attacchi governativi. Purtroppo, il governo invase e distrusse anche J.
M. riuscì a fuggire in Libia con un amico, anche lui facente parte dell’opposizione. Il viaggio fu molto faticoso: durò cinque giorni a bordo di un piccolo fuoristrada che li portò fino a K. L’arrivo non fu come si aspettarono: M. e i compagni di viaggio furono imprigionati e picchiati ripetutamente, poiché avevano invaso il territorio libico. Durante le torture il suo grande amico morì tra le sue braccia per una febbre molto alta. Disperato, riuscì a fuggire e per altri cinque anni vagò di città in città, lavorando occasionalmente, fino a quando, il suo ultimo datore di lavoro gli propose di partire per l’Italia, dove avrebbe potuto trovare finalmente pace. Dopo due giorni in mare aperto a bordo di un gommone, arrivò a Lampedusa. Ora è in una città del Nord, con l’obiettivo di ricostruire una nuova Identità..Non sa più nulla della sua famiglia, rivive nei sogni ad occhi aperti e ad occhi chiusi, il massacro della sua terra e delle persone che amava, la morte del suo amico e soffre del dolore dell’anima con il quale fa i conti ogni giorno.
La diagnosi effettuata è di disturbo post-traumatico da stress. Insieme al mediatore culturale, abbiamo iniziato un percorso psicoterapeutico utilizzando l’ipnosi come tecnica d’elite per affrontare il trauma, dando una fine più accettabile alle sue angosce e rielaborando i ricordi efficacemente.
Io e Norredine (mediatore culturale) abbiamo instaurato con il procedere della nostra conoscenza un’ottima fiducia, che mi ha permesso di lavorare bene con M. e con altri ragazzi. Durante la prima induzione  M. visualizzò il carcere e in modo specifico la morte di un suo caro amico. In stato vigile raccontava di non darsi pace per non aver potuto fare qualcosa per lui, avrebbe voluto portarlo da un medico e farlo curare. E’ stato facile creare la bolla ipnotica, M. era completamente a suo agio e pronto per affrontare la trance.
“ Vede il suo amico sdraiato e inespressivo, assente. Il sudore di V. (amico), bagna la sua pelle, è freddo e abbondante, lo sente ed ha un brivido. M. cerca di parlargli, di strappargli una parola o un’espressione, ma niente da fare. Gli chiedo se vuole fare qualcos’altro per V.! Il suo volto appare sollevato dopo che gli pongo questa domanda. M. decide di parlare con una guardia per farsi dare una mano a fuggire. Per fortuna quest’ultima, vedendo la gravità della situazione gli apre le sbarre. M. riconosce gli occhi del fratello nel viso della guardia.  Dice “è mio fratello”!  Carica l’esile corpo dell’amico sulle sue spalle e a fatica si avvia verso l’ospedale. La strada è lunga e M. lamenta continuamente troppa fatica. Dice di non farcela ad arrivare. Gli chiedo se vuole farsi dare una mano da qualcuno oppure farsi dare un passaggio. Risponde che non vede nessuno intorno a loro. Sono lui e V. in mezzo al deserto. Gli consiglio di controllare attentamente se c’è qualcosa o qualcuno dentro o fuori di sé che gli può aiutare. Risponde annuendo dopo un attimo di riflessione “la mia forza”. Dice di avere molta forza che gli sta salendo dallo stomaco. Questa forza è bianca, gli dico di espanderla in tutto il corpo. Lo fa e riesce ad arrivare all’ospedale. V. fa gli esami ed è curato. Ora si trova al capezzale dell’amico, la finestra della sua camera si affaccia su un mercato molto colorato. Il volto di V. è ancora inespressivo. Gli chiedo se vuole dirgli qualcosa per farlo sorridere. M. decide di guardarlo negli occhi e sorridergli e V. gli risponde mentre se ne va per sempre.”  A quel punto decido insieme a lui di terminare l’induzione e di farlo ritornare nel qui e nell’ora. M. apre gli occhi e dice “era vero, ero con V.” e le lacrime cominciano a sgorgare dal suo viso, sorride e dice grazie, mi stringe continuamente la mano dicendo che è contento perché ha fatto quello che avrebbe voluto: tentare di aiutare il suo amico. M. è sollevato, si vede e lo conferma, alla fine dell’induzione e in stato di veglia.
Alla fine di ogni seduta M. sorride e piange dicendo “grazie”! Non pretendo che M. accetti di non rivedere più la sua famiglia o di non pensare più al suo caro amico perso in prigione, ma il fatto che lui abbia iniziato a fidarsi di nuovo di qualcuno, credo sia già un ottimo risultato. Dopo quell’induzione M. smise di sognare V.
 
 
Dott.ssa Elena Miboli
Psicologa Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale
Perfezionamento in psicologia ospedaliera
Master in Schema Therapy per il trattamento dei disturbi di personalità
Esperta in Ipnosi Clinica Ericksoniana – formata presso il M. Erickson Institute di Torino
 
LA TESTIMONIANZA DI ELENA MIBOLI