LA PAROLA CHIAVE

Un professore universitario di trent'anni prese parte ad una festa organizzata dall'università e vide una donna di trent'anni, sola, dall'altra parte della sala. Anche lei lo vide e improvvisamente andarono l'uno verso l'altra. Nel giro di un mese avevano deciso il loro futuro e si erano sposati. Tre anni dopo vennero nel mio studio e mi raccontarono la loro triste storia; nel raccontarla erano estremamente timidi ed imbarazzati ed usavano un linguaggio molto ampolloso e formale. In poche parole si lamentavano che già prima del matrimonio avevano stabilito di formare famiglia e poiché erano entrambi trentenni, sapevano di non aver tempo da perdere. Ma dopo tre anni nonostante gli esami e i consigli medici non avevano avuto figli. Erano entrambi presenti nel mio studio, ma fu il marito a prendere la parola per primo per espormi il loro problema dicendo: “Dopo aver riflettuto a lungo io e mia moglie abbiamo concluso che è più opportuno che sia io a delineare il nostro comune problema e a descriverlo in maniera succinta. Questo problema è il più penoso e distruttivo di quanti ve ne siano nel nostro matrimonio. Poiché era nostro desiderio avere dei bambini ci siamo impegnati nell’adempimento del nostro dovere coniugale, con piena compartecipazione fisiologica, ogni notte e ogni mattina per fini procreativi. Anche durante le domeniche ed i giorni di festa ci siamo impegnati per più di quattro volte al giorno, senza mai permettere ad alcuna incapacità fisica di interferire. Come risultato della frustrazione dei nostri desideri filoprogenitivi, l’adempimento del nostro dovere coniugale è divenuto per noi progressivamente meno piacevole, ma questo non ha influito sui nostri tentativi di procreare; ci affligge però il constatare la nostra crescente intolleranza reciproca. Per tale motivo abbiamo fatto ricorso al suo aiuto, dato che gli altri aiuti medici si sono rivelati vani”.
A questo punto lo interruppi e dissi al marito: “Lei ha esposto il problema, ma ora vorrei che lei rimanesse in silenzio e che sua moglie esprimesse la propria opinione con parole sue”. Dopo che la moglie ebbe esposto il problema riproducendo quasi esattamente le stesse frasi ampollose e con imbarazzo perfino superiore a quello del marito, dissi: “Posso aiutarmi, ma occorrerà una terapia shock; non si tratta dell'elettroshock, né di uno shock fisico, ma sarà uno shock psicologico. Vi lascerò soli nello studio per quindici minuti, in modo tale che possiate scambiarvi i vostri punti di vista e le vostre opinioni per decidere se intendete accettare uno shock psicologico piuttosto violento. Alla fine dei quindici minuti ritornerò nello studio, vi chiederò la vostra decisione e mi comporterò i conseguenza”.
Lasciai lo studio, poi ritornai quindici minuiti più tardi e dissi: “Datemi la vostra risposta”. Il marito rispose: “Abbiamo discusso la questione tanto oggettivamente che soggettivamente e siamo pervenuti alla conclusione che sopporteremo qualsiasi cosa nella speranza di poter dare soddisfazione ai nostri desideri filoprogenitivi”. Chiesi alla moglie: “Lei è d’accordo?”, rispose: “Sono d’accordo”. Spiegai che lo shock sarebbe stato psicologico, che li avrebbe coinvolti emotivamente e che li avrebbe messi a dura prova: “L’applicazione sarà piuttosto semplice, ma voi due subirete un notevole shock psicologico. Vi consiglio di sedervi appoggiandovi bene e aggrappandovi saldamente alla sedia e di ascoltare attentamente quello che dico. Dopo che avrò parlato e che sarete stati sottoposti allo shock, voglio che manteniate tutti e due un assoluto silenzio. Tra pochi minuti potrete lasciare lo studio e tornare a casa vostra; voglio che tutti e due manteniate, anche andando a casa un assoluto silenzio, durante il quale scoprirete una moltitudine di pensieri che attraverseranno la vostra mente. Dirigendovi verso casa resterete in silenzio fino a che non sarete entrati e non avrete chiuso la porta, allora sarete liberi. Ora tenetevi ben stretti alla vostra sedia perché sto per darvi lo shock psicologico. Si tratta di questo: per tre lunghi anni vi siete impegnati nell’adempimento del vostro dovere coniugale, con piena compartecipazione fisiologica, per fini procreativi almeno due volte al giorno e in qualche caso per quattro volte in ventiquattro ore e siete stati costretti a subire la sconfitta dei vostri desideri filoprogenitivi. Ora per l’inferno, perché non vi fottete per divertirvi, pregando il diavolo che lei non resti incinta per almeno tre mesi. Adesso per favore andatevene”.
Seppi più tardi che essi mantennero il silenzio per tutta la strada di casa pensando a “molte cose”. Quando finalmente entrarono in casa e chiusero la porta, secondo la dichiarazione del marito: “Sentivamo di non poter aspettare di arrivare nella camera da letto e ci siamo lasciati andare sul pavimento ma non ci siamo impegnati nell’adempimento del nostro dovere coniugale, ci siamo divertiti. Ora sono appena trascorsi tre mesi e mia moglie è incinta”. Nove mesi più tardi nacque una bambina. Quando li richiamai per vedere la bambina constatai che il linguaggio formale, le parole polisillabiche e le frasi ampollose non erano più un elemento essenziale della loro conversazione. Erano persino in grado di raccontare barzellette spinte.
Tornando a casa, il viaggio di quaranta miglia in assoluto silenzio rese possibile, in accordo con le suggestioni che avevo dato loro, una grande quantità di pensieri profondamente repressi che correvano tumultuosamente nella loro mente; quando entrarono in casa questi pensieri si tradussero appena la porta su chiusa nella loro attività sessuale, era esattamente quello che avevo sperato. Quando la coppia fu interrogata a questo riguardo affermarono tutti e due che avevano la sensazione che ci fosse stata una elaborazione di pensieri erotici che aumentava man mano che si avvicinavano alla loro casa, ma dissero che non riuscivano a ricordare con precisione.
La storia di questo caso fu raccontata integralmente di fronte a un auditorio di oltre settanta specialisti in psichiatria della Columbia University. prima di raccontare la storia chiesi al pubblico se poteva sopportare l’ascolto di alcune cosiddette parole anglosassoni, che avevano attinenza con un problema psichiatrico. Il pubblico era sicuro di poterlo fare e anche io mi resi conto che poteva farlo. Ma con mio stupore, nel pronunciare la parola chiave, l pubblico restò per qualche istante freddo e immobile. Notai che perfino il tono della mia voce era completamente cambiato. Questo mostrava in maniera evidente i prolungati effetti delle inibizioni che si formano durante l’infanzia e il loro perdurare nell’età adulta.
 
Tratto da Terapie non comuni – Tecniche ipnotiche e terapia della famiglia. Astrolabio 1976, Roma. Pag. 149-150.
LA PAROLA CHIAVE