UN FORUNCOLO SULLA FRONTE

Un ragazzo di dodici anni continuava da due anni a toccarsi una ferita dovuta a un foruncolo sulla fronte e che ormai si era trasformata in un'ulcerazione permanente. Il padre e la madre avevano fatto ricorso a tutti i tipi idi punizione che conoscevano per impedirgli di toccarsi la ferita; anche gli insegnati e i compagni di scuola avevano tentato di convincerlo; i medici gli avevano spiegato che la ferita poteva degenerare in cancro e l'avevano bendata e fasciata per non fargliela toccare. Ma il ragazzo infilava le dita sotto le bende per toccarla, dicendo che era un impulso che non riusciva a controllare.

Il padre e la madre del ragazzo facevano tutto il possibile, ma non erano d'accordo sull'entità della punizione. Il padre era arrivato all'estremo di privare il ragazzo di tutti i suoi giocattoli, gli aveva venduto la bicicletta, gli aveva rotto l'arco e le frecce.

Alla fine i genitori decisero di portarlo da me. Parlai con la madre, per sapere qualcosa della situazione famigliare e nella speranza di trovare qualche elemento utile alla terapia. Così venni a conoscenza dei doveri e delle competenze che vigevano nella famiglia e in particolare del fatto che il figlio sbrigava alcune faccende domestiche: avevano un grande prato e un grande giardino di cui il ragazzo si prendeva cura. Seppi anche che la madre prendeva spesso le parti del figlio e che questi era molto in collera con il padre per le punizioni che gli aveva inflitto e soprattutto perché aveva rotto il suo arco. Scoprii inoltre che il ragazzo aveva un altro problema: quando scriveva tendeva ad omettere qualche lettera nelle singole parole. Spesso mi interesso del rendimento scolastico dei ragazzi e qualche volta trovo qualcosa di importante. 

Vidi insieme il padre e il figlio e cercai di definire con loro il concetto di proprietà. Presi come esempio il problema dell'arco. A chi apparteneva? Il padre ammise che l'arco era del figlio, glielo aveva regalato per il suo compleanno. Poi chiesi come si poteva curare una ferita. Ci trovammo tutti d'accordo sul fatto che doveva essere curata con fasciature e medicamenti di vario tipo. A questo punto domandai se si poteva usare l'arco per curarle e in che modo, rompendo l'arco, la ferita poteva guarire. Il padre era molto imbarazzato ed il figlio lo guardava con gli occhi sbarrati; il padre arrossì e cercò timidamente di cambiare discorso, allora mi rivolsi al figlio e gli domandai se in fin dei conti non pensava di poter onestamente riconoscere le buone intenzioni di suo padre, nonostante il suo stupido comportamento. Tutti e due furono costretti ad accettare queste conclusioni. Così il ragazzo poteva definire stupido il comportamento del padre, ma doveva anche riconoscere le sue buone intenzioni.

Poi chiesi se dovevamo parlare ancora delle medicine che non servivano a niente, oppure se potevamo dimenticarcene e osservai: “Lei ha tentato inutilmente per due anni, ha rotto l'arco e ha venduto la bicicletta, ma le sue medicine non hanno mai funzionato. Ora cosa vuole fare?”. Al ragazzo venne l'idea che avrei potuto fare qualcosa io.

Risposi: “Va bene, lo farò, ma il modo in cui lo farò non ti piacerà perché farò qualcosa che eliminerà completamente la ferita anche se non ti piacerà affatto; però ti farà piacere che la ferita venga eliminata; questo senza dubbio ti farà piacere”. Spiegai al ragazzo che avrebbe dovuto dedicare tutti i suoi week-ends alla terapia della ferita che aveva sulla fronte mentre il padre avrebbe trascorso il fine settimana sbrigando le faccende di cui in genere si occupava lui; il ragazzo guardò me e il padre con espressione di trionfo.

Parlammo delle faccende da sbrigare, del prato da falciare e rastrellare, della cuccia del cane da pulire, delle erbacce da togliere nel giardino e così via. Poi domandai chi controllava il lavoro quando era finito; in genere era il padre a fare il controllo, allora dissi: “Bene, sabato mentre tu sarai occupato a curare la tua ferita e quindi non potrai farlo personalmente, dovrai uscire per controllare come se la cava tuo padre con il tuo lavoro”.

A questo punto il ragazzo divenne estremamente curioso di sapere cosa avrebbe dovuto fare durante il week-end per curare la sua ferita e io iniziai la mia tattica basata sull'uso delle digressioni: con un modo di fare molto lento ed esitante fino all'esasperazione spiegai nei dettagli la mia strategia terapeutica. In questo modo il paziente è tutto proteso nel desiderio di arrivare finalmente al punto per sapere che cosa diavolo dovrà fare; è convinto che il terapeuta abbia motivo di dare la prescrizione in quel modo per evitare di riversarla su di lui in maniera brusca, quindi aspetta che il terapeuta venga al punto e quando la prescrizione viene data è veramente motivato ad accettarla.

Dissi al ragazzo che avevo notato che faceva molti errori di ortografia; faceva molti orrori di ortografia perché quando scriveva una parola spesso ometteva qualche lettera.

Poi continuai: “Penso che dovresti iniziare a curare la tua ferita il sabato mattina verso le sei. Infatti le cose si fanno con molta serietà se ci si alza presto al mattino per farle e in effetti questa è una cosa seria. Naturalmente puoi iniziare dieci minuti prima invece di aspettare fino alle sei, oppure puoi farlo cinque minuti dopo, perché in effetti che differenza c'è se si aspetta cinque minuti?”.

Proseguii dicendo: “Puoi scrivere con una penna o con una matita. Alcune matite sono colorate, ma qualsiasi matita potrebbe andare bene. Potresti usare una penna stilografica o una penna biro. Per la carta, credo che sia meglio quella a righe, potrebbe essere di questa grandezza o poco più, insomma all’incirca grande così. Penso che tuo padre possa procurarti dei fogli abbastanza grandi di carta a righe”.

Alla fine gli dissi: “Penso che tu dovresti scrivere questa frase: ‘Io non credo che sia una buona idea toccarmi la ferita sulla fronte’”. Ripresi la frase con una lentezza misurata e dissi ancora: “Devi scriverla piano, scriverla accuratamente, scriverla attentamente. Quando hai finito la pagina conta tutte le righe poi scrivi di nuovo la frase lentamente e attentamente. Controlla sempre tutte le righe e tutte le parole perché non devi omettere nessuna lettera: non puoi omettere il benché minimo dettaglio, se vuoi guarire perfettamente una ferita come la tua”.

Gli dissi che non sapevo quanto tempo sarebbe stato necessario per la guarigione della ferita, ma pensavo che, poiché l’aveva avuta per due anni, ci sarebbe voluto almeno un mese. Comunque poteva controllarla allo specchio ogni 3 – 4 giorni perché così avrebbe potuto rendersi conto del miglioramento. In ogni caso, avrebbe dovuto continuare a scrivere per un altro weekend.

Doveva iniziare alle sei del mattino e doveva fare colazione più tardi. Chiesi separatamente alla madre di fare in modo di preparare la colazione più tardi in modo che il figlio potesse avere una pausa. Ogni due ore doveva prendere qualcosa, un succo di frutta o un bicchiere d’acqua. Poi poteva controllare il lavoro del padre e quindi tornare a scrivere.

Gli spiegai che la prima mattina avrebbe avuto male alla mano, in questo caso tutte le volte che smetteva di scrivere avrebbe dovuto aprire e chiudere la mano rapidamente per rilassare i muscoli. Probabilmente sarebbe stato più stanco, ma i suoi muscoli avrebbero acquistato scioltezza. Dissi che secondo me dopo la merenda avrebbe potuto ritenersi libero dai compiti e che tutto sommato non mi interessava che finisse esattamente alle quattro. Il fatto che per me fosse indifferente il momento in cui doveva smettere eliminava l'aspetto punitivo della prescrizione.

Ad ogni fine settimana il ragazzo seguì il suo compito e mi portò con grande orgoglio e soddisfazione una incredibile quantità di fogli di carta che contenevano la frase che io gli avevo suggerito. Non fu neanche necessario che il padre ricordasse quello che doveva fare: i genitori stessi rimasero sbalorditi per l’impegno con il quale il figlio continuava scrivere. La millesima pagina era pressoché perfetta. Avevo tenuto a precisare che avrei controllato io stesso gli scritti del ragazzo che, se voleva, poteva mostrarli genitori, ma in ogni caso il giudizio finale sarebbe toccato a me. Controllai pagina per pagina e gli dissi che avrei potuto farlo con molta rapidità, ma lui avrebbe potuto dirmi se c’era qualche pagina alla quale avrei dovuto dedicare maggiore attenzione. Fui così esonerato dall’esaminare accuratamente quello che aveva scritto.

Quanto più il ragazzo scriveva, tanto più aveva la possibilità di controllare il lavoro del padre, quanto più scriveva tanto più doveva scrivere accuratamente; in ogni caso si sarebbe ottenuto un miglioramento. Questo approccio permise di eliminare la sua compulsione a toccarsi la ferita, sostituendola con una compulsione a scrivere della quale divenne veramente orgoglioso.

Il padre disse: "Ho capito subito quello che dovevo fare e ho fatto un ottimo lavoro". Il figlio, dal canto suo, fu molto contento di essere riuscito a trovare una foglia sul prato. Il padre mise perfettamente in ordine prato il giardino, aggiustò il recinto e sbrigò molto bene tutte le altre faccende mentre il ragazzo scriveva la frase.

Nel giro di un mese la ferita guarì. Un anno dopo non si era verificata alcuna ricaduta e per di più di quell’orribile ulcerazione cronica non c’era rimasta neppure una cicatrice.

Misi i fogli del ragazzo nel cassetto in cui tenevo i documenti e gli chiesi per quanto tempo avrei dovuto tenerli; avrebbero potuto riempire completamente un archivio. Rispose che avrei potuto tenerli per qualche mese. Quando gli dissi che cosa avrei dovuto farne dopo, mi rispose: “Dopo sarà solo carta da gettare”.

 

Liberamente tratto da Jay Haley. Terapie non Comuni, pag. 189. Astrolabio Editore.

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