COS'E' VERAMENTE UN INSULTO

Una signora mi scrisse dalla California che il marito era completamente paralizzato e non poteva parlare a causa di un ictus apoplettico. Chiese se poteva portarlo da me. Il caso riferito nella lettera era così pietoso, che accettai con l’intenzione di consolare la donna per permetterle di sopportare meglio la sua difficile situazione.
La donna portò il marito a Phoenix, fissò una stanza in un motel e venne a trovarmi insieme a lui. Chiesi a due miei figli di portare l’uomo in casa, mentre io feci entrare la signora nel mio studio e parlai con lei da solo. Mi disse che suo marito, un uomo sulla cinquantina, aveva avuto l’ictus un anno prima e per tutto l’anno era rimasto immobile su un letto di corsia di una clinica universitaria. I medici della clinica facevano notare agli studenti, in sua presenza, che si trattava di un caso disperato, che l’uomo era completamente paralizzato e incapace di parlare e non si poteva fare altro che mantenerlo in buone condizioni fino al momento della morte.
La donna disse: “Vede, mio marito è prussiano, è molto orgoglioso e si è costruito una fortuna da solo; è sempre stato un uomo molto attivo e un accanito lettore, e soprattutto per tutta la sua vita è stato sempre estremamente autoritario. Adesso invece ho dovuto vederlo per un anno interno immobile in un letto e bisognava  dargli da mangiare, lavarlo e parlargli come se fosse un bambino. Ogni volta che andavo a trovarlo in ospedale, vedevo nei suoi occhi uno sguardo adirato e pieno di collera. Mi dissero che era un caso senza speranza e chiesi a mio marito se glielo avevano detto e lui abbassò le palpebre  per fare segno di si. È l’unico sistema che gli è rimasto per comunicare.”
Mentre parlava mi resi conto che non potevo limitarmi a consolare la donna; forse si poteva fare qualcosa per il marito. Pensandoci sopra, si trattava di un prussiano, impulsivo, autoritario, molto intelligente e capace. Era vissuto per un anno covando una rabbia furiosa. Sua moglie con una forza eccezionale era riuscita a metterlo in macchina e a portarlo qui dalla California, farlo scendere dalla macchina per portarlo a casa mia. I miei due figli avevano avuto difficoltà a portarlo in casa, eppure questa donna era riuscita, da sola, a fargli attraversare gli Stati Uniti.
Così dissi alla signora: “Mi porti suo marito in modo che io possa aiutarlo, cercherò di fare del mio meglio per aiutarlo. Voglio parlare a suo marito e voglio che lei sia presente, ma senza intervenire. Lei non capirà cosa farò, e perché  lo farò. Ma può capire che le sto chiedendo di stare seduta lì, tranquilla e attenta, senza dire né fare nulla, in nessun caso”. Accettò questa imposizione e più tardi quando stava per intervenire, bastò uno sguardo per trattenerla.
Mi sedetti di fronte all’uomo che stava immobile sulla sedia, incapace di muovere qualsiasi cosa, ad eccezione delle palpebre. Cominciai a parlargli piuttosto duramente. Dissi: “Così lei è un tedesco prussiano. Stupido, dannato nazista. I tedeschi prussiani sono terribilmente stupidi, presuntuosi, ignoranti e bestiali. Pensavano di poter dominare il mondo e hanno distrutto il loro paese! Che razza di aggettivi si possono trovare per bestie del genere. Non sono neppure degni di vivere. Il mondo sarebbe senz’altro migliore se fossero utilizzati come concime”.
Era impressionante vedere i suoi occhi pieni di rabbia. Continuai: “Lei è stato circondato di attenzioni, alimentato, vestito, assistito, lavato, le sono state persino tagliate le unghie dei piedi. Chi è lei per meritare una cosa del genere? Lei è molto peggio di un ebreo criminale e deficiente!”.
Andai avanti così dicendo quanto peggio riuscivo a trovare e aggiungendo frasi del tipo: “Lei è talmente pigro che è sicuramente contento di starsene in un letto servito di tutto punto”. Dopo un po’ dissi: “Bene, non ho avuto né l’opportunità, né il tempo di pensare a tutti gli insulti che lei senza dubbio si merita. Torni domani. Ho abbastanza tempo nel resto della giornata per pensare tutte le cose che voglio dirle. E lei tornerà vero?”. Rispose prontamente con un “No” esplosivo.
Io dissi: “Lei per un anno non ha parlato. Io non ho fatto altro che chiamarla sporco maiale nazista e lei ha iniziato a parlare. Lei tornerà domani qui e mi darà la vera descrizione di se stesso!”.
Rispose ancora “No, no, no!”.
Non so come fece, ma cercò di alzarsi in piedi. Colpì un fianco della moglie ed uscì barcollando dallo studio. La donna stava per precipitarsi dietro di lui, ma io la fermai dicendole: “Si sieda, nel peggiore dei casi non può che cadere sul pavimento. Ma se riesce ad arrivare alla macchina barcollando fa esattamente quello che lei desidera”.
L’uomo uscì dalla casa scendendo addirittura giù per le scale e cercò di infilarsi nella macchina. I miei figli lo osservarono pronti a correre in suo aiuto.
Non c’è niente di simile a un prussiano: sono autoritari, dittatoriali, incredibilmente sensibili a ciò che considerano un insulto. Io ho lavorato con alcuni prussiani; il loro bisogno di rispetto è molto grande, l’immagine del loro io è terribilmente gonfia di orgoglio. Si trattava di un uomo che era stato insultato, al di là della sopportazione, per un anno intero in ospedale – poi io gli avevo fatto vedere cosa fosse veramente un insulto, ed egli aveva reagito.
Dissi alla moglie: “Lo riporti di nuovo domani mattina alle undici, ora lo porti al motel e lo trascini nella sua stanza. Lo metta a letto, continuando a prendersi cura di lui come al solito. Quando è il momento di addormentarsi e lei sta per uscire dalla stanza di suo marito  per entrare nella sua, gli dica che ha un appuntamento con me domani mattina alle undici. Poi esca fuori dalla stanza.
“Domani mattina gli serva la colazione e lo vesta. Poi alle dieci e mezza dica ‘Ora dobbiamo andare allo studio del dottor Erickson’. Vada fuori, prenda la macchina e si metta di fronte alla porta con il motore acceso. Aspetti fino a quando non vedrà muoversi la maniglia dietro la porta, allora potrà muoversi e aiutare suo marito ad entrare nella macchina”.
La mattina successiva arrivarono: l’uomo riuscì a entrare nello studio con l’aiuto della moglie e lo facemmo sedere su una sedia. Io dissi semplicemente: “Vede, ieri valeva senz'altro la pena passare per quell’inferno per renderla in grado di uscire da solo fuori dallo studio. Il problema è cosa devo fare ora per farla parlare e camminare, per darle la gioia di vivere e la possibilità di leggere un libro. Non desidero essere nuovamente duro, ma lei non credeva affatto in se stesso e io sono stato sufficientemente sgarbato da non lasciarle altra possibilità che quella di protestare. Spero che ora si possa essere amici. Cerchiamo di ripristinare almeno la sua capacità di attendere alle occupazioni più semplici”.
L’espressione del suo viso era molto preoccupata. Dissi: “Lei si rende conto che posso farla parlare insultandola, ma penso che lei possa rispondere ‘Si? Anche a una domanda meno spiacevole. Alla luce di quanto abbiamo già fatto, dopo un anno trascorso in una terribile immobilità, penso che lei desideri che io continui ad aiutarla. Può rispondere ‘Si’ o ‘No’”. Egli lottò a lungo, ma alla fine tirò fuori un “si”.
Dopo circa due mesi era in grado di tornare in California. Camminava male, poteva fare un uso limitato del braccio e aveva un lieve grado di afasia e soprattutto poteva leggere soltanto se teneva il libro lontano e da una parte. Gli chiesi cosa pensava lo avesse aiutato. Rispose: “Mia moglie mi ha portato da lei per l’ipnosi e io ho sempre avuto la sensazione, dopo quel primo giorno in cui mi fece adirare, che lei mi stesse ipnotizzando e mi stesse facendo fare tutto quello che io riuscivo a fare. Ma ormai posso avere fiducia in me stesso per il fatto di aver camminato per quindici miglia in un giorno nello zoo di Tucson. Ero molto stanco dopo, ma sono riuscito a farlo”.
Mi chiese se poteva tornare al lavoro, almeno per un orario limitato. Gli dissi che avrebbe dovuto annotare le cose più semplici che poteva fare sul posto di lavoro e doveva limitarsi a fare solo quelle. Egli acconsentì.
Ricevetti lettere da lui e da lei periodicamente per quasi sette anni, furono anni felici. La corrispondenza arrivò ad intervalli sempre maggiori ed infine cessò. Poi, circa dieci anni dopo la loro visita, la donna scrisse che suo marito aveva avuto di nuovo una trombosi con conseguenze piuttosto serie e mi chiese se volevo vederlo di nuovo per riportarlo in buone condizioni di salute.
Considerando la sua età non mi sembrava più possibile fare qualcosa per lui. Le scrissi facendole notare che aveva superato i sessanta anni ed era già stato gravemente menomato in seguito al primo episodio. Ora il secondo lo aveva ridotto in stato di incoscienza per diversi giorni e ormai era tornato a essere immobile come prima. Le dissi che non pensavo di poter fare altro.
 
Tratto da Jay Haley, Terapie non Comuni, Tecniche Ipnotiche e Terapia della Famiglia. Astrolabio, 1976, Roma.
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