IPNOSI E NEUROSCIENZE: PAROLE CHE CAMBIANO CERVELLI

Il fenomeno dell’ipnosi può essere considerato come una interazione sociale dove una persona, il paziente nel caso dell’ipnosi clinica, riceve, o meglio “risponde” alle suggestioni offerte da un'altra persona, il terapeuta. Le esperienze provate dal paziente potranno spaziare dal rilassamento ad esperienze immaginative inerenti alterazioni della consapevolezza percettiva (sentire meno dolore per esempio), della memoria, del controllo volontario dell’azione e di diversi altri processi cognitivi (Kihlstrom, 2013). L’idea che i processi ipnotici abbiano origine in determinate aree cerebrali non è soltanto appannaggio delle neuroscienze degli ultimi anni ma è un’idea che nasce e si sviluppa sin dai primi studi sull’ipnosi.
Senza voler scendere nel dettaglio della storia dell’ipnosi, le sue radici affondano nel cosiddetto “magnetismo animale” di Franz Anton Mesmer nel diciottesimo secolo ed in seguito, nell’ultima parte del diciannovesimo secolo,  l’ipnosi provvide alla fondazione e lo sviluppo di diverse teorie sulle patologie mentali.
Il primo autore che iniziò ad usare il termine “ipnotismo” fu James Braid  un chirurgo scozzese vissuto nell’ottocento  che, nel tentativo di “spogliare” l’ipnosi della nozione di magnetismo animale iniziò a chiamarla “neuro-ipnosi” aggiungendo un prefisso che pur delineando, nell’idea dell’autore, l’origine cerebrale del processo, sparirà con il passare del tempo. Seguendo queste orme, William James definì l’ipnosi come uno stato neurovegetativo simile al sonno (Kihlstrom e McConkey, 1990)e Pavlov ipotizzò che gli effetti di un’induzione ipnotica riflettessero uno stato di inibizione corticale (Edmonston, 1981), ovvero una situazione in cui il cervello non riusciva a “stoppare” determinati comportamenti dal verificarsi rendendo in qualche modo più “libero” il paziente.
Nelle righe seguenti cercheremo di tracciare il percorso che ha permesso alle neuroscienze di “spiegare” i meccanismi ipnotici, seguendo le spiegazioni più importanti e recenti sui meccanismi neurali che sottostanno a questi fenomeni. Inoltre, cercheremo di creare un collegamento tra questi meccanismi ed i meccanismi sottostanti il cosiddetto “effetto placebo” che, in modo simile all’ipnosi, attraverso aspettative positive, comunicazioni verbali e non verbali, arriva a modulare il cervello dei pazienti così come avviene dopo un’induzione ipnotica.
 
2. Ciò che le neuroscienze ci insegnano sull’Ipnosi
 
Una dei principali oggetti di studio relativi all’ipnosi riguarda i diversi gradi di “ipnotizzabilità” ovvero differenze individuali nella risposta delle persone alle induzioni ipnotiche (Laurence et al., 2008).  Sfortunatamente, queste differenze non possono essere predette con grande accuratezza attraverso dei soli test carta e matita (come per esempio i classici test di intelligenza) anche se nel corso degli anni sono state sviluppate diverse scale atte a misurare questa suscettibilità all’ipnosi come l’”Harvard Group Scale of Hypnotic Susceptibility”. L’importanza di questa caratteristica per chi vuole indagare quali aree cerebrali sottostiano ai fenomeni ipnotici è duplice: da un lato sarebbe estremamente interessante trovare, attraverso dei riscontri oggettivi come le registrazioni dell’attività cerebrale, un correlato biologico di questa “suggestionabilità”. D’altra parte, questa caratteristica si pone come limitazione negli studi sull’ipnosi in quanto, per definizione, questa si può studiare al meglio solo in coloro che la provano e soltanto una validazione soggettiva di questo genere può supportare i dati biologici: ovvero se riuscissimo ad osservare un’area precisa del cervello attiva durante l’ipnosi dovremmo comunque essere certi che il partecipante sia in uno stato modificato di coscienza.
In generale, il fenomeno dell’ipnosi può essere spiegato come un “assorbimento” del paziente/partecipante, esposto alle parole e ai gesti del conduttore (il terapeuta), che comporta una focalizzazione dell’attenzione su determinati dettagli ed al tempo stesso impedisce a ad altri contenuti di interferire con questo processo (Oakley e Halligan, 2013).
Le tecniche più utilizzate per lo studio dell’ipnosi derivano delle cosiddette “Neuroimmagini funzionali” ovvero l’insieme di tutte le tecnologie in grado di misurare l’attività di determinate aree del cervello per analizzare la relazione tra quelle suddette aree e specifiche funzioni mentali come la memoria, l’attenzione ed il linguaggio. In particolare, storicamente l’ipnosi è stata oggetto di studio delle ricerche “a base” di elettrofisiologia (utilizzando dunque l’elettroencefalogramma, EEG) mentre più recentemente il focus tecnologico si è spostato sulla risonanza magnetica funzionale (fMRI).
 
2.1 Segnali elettrici ed ipnosi
Storicamente, l’approccio più popolare per comprendere quali fossero le basi neurali dell’ipnosi è stato rappresentato dall’EEG. L’elettroencefalogramma è una tecnica in cui è possibile osservare, anche migliaia di volte al secondo, l’attività elettrica del cervello attraverso il posizionamento di elettrodi superficiali (simili a piccoli tamponi posizionati sopra il cuoio capelluto): le informazioni classiche che si possono ottenere da questa tecnica sono informazioni sulle frequenze più rappresentate a livello cerebrale (si veda figura 1, sotto).

Parole e cervelli 1 
Figura 1. Principali frequenze e classico posizionamento degli elettrodi nell’EEG.
 
I primi studi con l’EEG erano cosiddetti esperimenti di “pesca” ovvero si cercava di trovare un qualunque risultato (ovvero una qualunque frequenza più rappresentata) durante l’ipnosi. Nonostante ciò, i primi risultati negli ultimi anni 60, ipotizzarono che l’ipnosi fosse associato ad una maggiore presenza del ritmo Alpha. Questa ipotesi derivava da osservazioni precedenti in praticanti della cultura Zen e della meditazione yoga dove era stato osservata una marcata densità del ritmo Alpha (onde caratterizzate da una frequenza compresa tra gli 8 ed i 12 Hz e tipico della veglia ad occhi chiusi dunque rilassata). Dagli anni sessanta fino ad oggi è in effetti chiaro come ci sia un aumento di ritmo Alpha durante le sedute di ipnosi (Kihlstrom, ibid.). D’altra parte, nei successivi anni 90, reminiscente dei consigli di inizio secolo di Wiliam James, ritornò in voga la somiglianza tra l’ipnosi ed il sonno e dunque l’associazione tra il ritmo Theta (tipico delle fasi di dormiveglia e caratterizzato da frequenze lente tra gli 0.5 ed i 4 Hz) che in effetti si è rivelato presente durante le sedute ipnotiche (Sabourin et al., 1990).
Come spesso, però, capita nell’ambito delle neuroscienze: con il migliorare delle tecniche di analisi del segnale EEG,  la visione dei ritmi cerebrali coinvolti nell’ipnosi divenne più complessa ed inglobò anche le differenze tra soggetti altamente suscettibili all’ipnosi e soggetti meno suscettibili. In uno studio condotto nel 2001 due ricercatori londinesi, Williams e Gruzelier, studiarono attraverso l’EEG le differenze presenti in soggetti suscettibili o meno all’ipnosi prima, durante e subito dopo una seduta di ipnosi. I risultati mostrarono come, innanzitutto, i soggetti più suscettibili presentassero, successivamente alla seduta, una maggiore presenza di ritmo Theta (quasi come se fossero, dunque, in uno stadio di addormentamento post-seduta) mentre per ciò che concerne il ritmo Alpha, quest’ultimo aumentava prima dell’ipnosi e diminuiva subito dopo la seduta nei partecipanti più suscettibili mentre presentava il decorso opposto nei partecipanti meno suscettibili. Quest’ultimo dato indicava, secondo gli autori, come il ritmo Alpha potesse essere una buona descrizione “oggettiva” dell’esperienza e della suscettibilità ipnotica mentre il ritmo Theta indicasse una più semplice indicazione del grado di rilassamento del partecipante.  
 
2.2 Osservare l’ipnosi nel cervello
Più recentemente, le neuroimmagini funzionali hanno rappresentato lo strumento più importante nello studio dei processi e delle aree coinvolte durante specifiche processi cognitivi. L’fMRI è una tecnica, infatti, che permette (seppur avendo una risoluzione temporale inferiore all’EEG) di poter “scrutare” all’interno del cervello quali aree siano maggiormente attive durante un compito preciso (per esempio si può chiedere ai partecipanti di contare per osservare quali aree siano più implicate in questo compito aritmetico). Le attivazioni cerebrali di solito vengono mostrate su di una sezione degli emisferi cerebrali attraverso delle macchie colorate (si veda figura 3, più in basso). Il vantaggio di questa tecnica è la possibilità di poter osservare spazialmente con alta precisione aree corticali che con l’EEG non si potrebbero osservare. Lo svantaggio della tecnica risiede principalmente nella sua “scomodità” (il soggetto deve infatti entrare all’interno di un tubo molto rumoroso ed è costretto a mantenersi immobile, si veda figura 2, subito sotto) e nel suo costo estremamente elevato (rispetto ad un’acquisizione del segnale EEG).

 Scanner fMRI classico
Figura 2. Scanner fMRI classico.
 
I classici studi di fMRI ed ipnosi mettono a confronto due condizioni sperimentali in particolare: in una prima condizione i partecipanti entrano nello scanner e viene misurata la loro semplice attività di veglia. Questa attività verrà in seguito messa a confronto con l’attività del cervello mentre vengono ipnotizzati. Le differenze tra le due condizioni saranno, dunque, indicative di quali aree siano più attive durante lo stato di coscienza alterato tipico dell’ipnosi. Il vantaggio di questo metodo è  rappresentato dalla sua semplicità e facilità di conduzione.
Seguendo questo approccio McGeown e collaboratori (2009) hanno misurato l’attività dei cervelli di partecipanti più o meno suscettibili all’ipnosi mentre riposavano all’interno dello scanner oppure in uno stato di veglia o ancora durante uno stato ipnotico. I partecipanti più suscettibili hanno mostrato una significativa diminuzione dell’attività nel giro frontale sinistro (in giallo nella figura 3, riquadro in alto), un’area che fa parte della cosiddetta “default mode network”, una serie di aree attive (tra i diversi compiti) durante situazioni di riposo.
Un differente tipo di approccio negli studi di fMRI ed ipnosi è rappresentato dal cosiddetto “controllo task-specifico” e consiste nel comparare l’attività cerebrale durante l’ipnosi oppure durante stati di veglia, mentre i partecipanti effettuano un compito specifico (contare, parlare etc…).
Seguendo quest’approccio, Egner, Jamieson e Gruzelier (2005) hanno misurato l’attività cerebrale in pazienti ad alta e bassa suscettibilità ipnotica mentre questi si cimentavano con lo Stroop task. Questo task richiede ai soggetti dire il colore con cui sono state scritte delle parole che a loro volta però sono nomi di diversi colori (quindi per esempio la parola “blu” colorata in giallo). Normalmente per compiere questo compito un partecipante dovrà inibire una risposta automatica (la lettura) per accedere alla sola informazione riguardante il colore della parola. I ricercatori hanno osservato come nei partecipanti più suscettibili all’ipnosi, durante uno stato modificato di coscienza, mostrino un aumento dell’attività della corteccia cingolata anteriore (ACC) mentre i soggetti meno suscettibili mostrino una diminuzione dell’attività nella stessa area (figura 3, riquadro in basso). L’ACC è una regione coinvolta nella supervisione dei conflitti cognitivi (infatti è spesso attiva in compiti come lo Stroop task). I ricercatori hanno interpretato i risultati, ipotizzando un aumento della capacità di risoluzione dei conflitti (e dunque una maggiore capacità di effettuare compiti come lo Stroop task) nei partecipanti più suscettibili all’ipnosi.

 Studio McGeowen Egner
Figura 3. Riassunto dei risultati tratti dello studio di McGeowen (2009), in alto ed Egner (2005) , in basso.
 
Più recentemente, l’fMRI è stata utilizzata per indagare gli effetti dell’ipnosi sull’immaginazione motoria (ovverosia sulla capacità di immaginare movimenti, spesso utilizzata, almeno negli stati uniti, come forma di riabilitazione motoria a seguito di incidenti o traumi o anche come forma di allenamento per atleti). I risultati di questo studio hanno mostrato, a conferma degli studi presentati precedentemente, come immaginare movimenti durante l’ipnosi aumenti l’attivazione di aree come la ACC e corteccia frontale superiore.  Questa attivazione era nettamente minore quando i partecipanti provavano ad immaginare i movimenti senza essere stati “aiutati” dall’ipnosi (Muller et al., 2012). I risultati di questo studio, inoltre, aprono le porte all’utilizzo dell’ipnosi clinica nel campo della riabilitazione motoria (oltre che nel campo del potenziamento fisico all’interno degli sport dove è già utilizzata da tempo).
In generale, dagli studi di fMRI, emerge come aree dei lobi frontali coinvolte solitamente in compiti di attenzione, risoluzione dei conflitti cognitivi ed inibizione di risposte stereotipate siano maggiormente attive in stati successivi a sedute di ipnosi, specialmente in partecipanti altamente suscettibili a questi processi. Il tutto porta a pensare all’ipnosi come ad un “rilassamento” dei processi, iper attivi nella vita di tutti i giorni, di controllo cerebrale, probabilmente rendendo il paziente/partecipante più “libero” di concentrarsi nella sola relazione con il proprio terapeuta/ricercatore.
 
3. Ipnosi, placebo e neuroscienze
 
Il rapporto medico-paziente è da sempre regolato da parole ed atteggiamenti che portano con loro potenti aspettative rispetto al percorso di cura. Oltre alle aspettative personali del paziente, infatti, una migliore interazione con il medico conduce ad una maggiore aderenza al piano terapeutico, tanto che il numero delle visite mediche può essere considerato come indice di miglioramento (per una rassegna degli studi sulla relazione medico paziente si veda: Benedetti, 2012). Pertanto, la fiducia che il paziente ripone nel proprio medico, l’idea che si fa dell’esperienza di quest’ultimo ma anche (forse soprattutto) la relazione umana che si instaura con il medico sono tutti fattori che portano ad esiti maggiormente positivi di una terapia. Questi fattori entrano a far parte di ciò che viene chiamato “effetto placebo” che può essere definito come un effetto del contesto che aleggia attorno ad una terapia intesa nel senso più ampio possibile del termine, consapevoli che l’effetto del contesto è presente non solo in una terapia farmacologica ma è di certo presente anche all’interno di una psicoterapia (Piedimonte e Benedetti, 2015).
E’ indubbio dunque che si possa tracciare un parallelo tra ipnosi clinica ed effetto placebo all’interno di una terapia, laddove l’ipnosi può essere vista come un  “placebo non ingannevole” (Kirsh, 1994). In questo senso, rileggendo l’ipnosi in chiave placebo, il punto cruciale nelle sedute potrebbe essere rappresentato dal ricreare un contesto che eliciti nel cliente effetti placebo senza però l’uso di “reali” placebo e dunque creando aspettative di cambiamento attraverso la relazione verbale e contestuale.
E’ interessante notare come diversi studi hanno comparato gli effetti dovuti dell’ipnosi con quelli inerenti a una risposta placebo in diversi ambienti clinici. In particolare, è stato mostrato come sia l’ipnosi che il placebo producano riduzioni del dolore della stessa entità nel trattamento delle cefalee (Spanos et al., 1993). All’interno degli studi sul dolore sperimentale (dolore che viene “artificialmente” prodotto per mezzo, ad esempio, di un manicotto che stringe l’avambraccio dei partecipanti) è stato dimostrato come i soggetti meno suscettibili all’ipnosi riportassero riduzioni del dolore simili quando veniva loro somministrato un placebo o quando veniva loro proposta una seduta d’ipnosi. Al contrario, i partecipanti altamente suscettibili all’ipnosi hanno mostrato una maggiore riduzione del dolore soltanto dopo una seduta d’ipnosi rispetto alla semplice somministrazione di un placebo (Frischholz, 2007).
Se da un lato, dunque, sembra che gli effetti dovuti al placebo ed all’ipnosi siano molto simili, d’altra parte esistono sicuramente alcune differenze sostanziali tra i due meccanismi, purtroppo ancora poco esaminate dalla letteratura scientifica.
A livello neurale, le neuroimmagini funzionali hanno mostrato alcuni interessanti “paralleli cerebrali” tra ipnosi e placebo. Come sottolineato in paragrafi precedenti, diversi studi hanno infatti indicato l’importante ruolo della corteccia cingolata anteriore (sede di elaborazione delle emozioni) e della corteccia frontale (importante per la pianificazione di comportamenti futuri complessi, l’attenzione e l’inibizione di comportamenti stereotipati) durante le sedute d’ipnosi e queste stesse regioni risultano attive durante la risposta placebo (Frisaldi, Piedimonte e Benedetti 2014).
Nel campo del dolore, per esempio, le aree attivate da un farmaco e dal placebo sono molto simili: in entrambi i casi si evidenzia una riduzione dell’attivazione delle aree cerebrali deputate alla percezione dolorifica, ovvero quell’insieme di aree nominato “matrice del dolore”, che includono il talamo, l’insula, la parte rostrale della corteccia cingolata anteriore, la corteccia prefrontale dorsolaterale, la corteccia somatosensoriale primaria, il giro sopramarginale e il lobulo parietale inferiore sinistro. Inoltre, nel caso della somministrazione placebo, si registra un’attivazione maggiore di aree frontali, come le precedentemente citate cortecce dorso laterale prefrontale e cingolata anteriore (Petrovic et al., 2005, 2010).
Per ciò che riguarda gli effetti dell’ipnosi, come è stato mostrato in precedenza, questi producono un pattern cerebrale che consiste principalmente nella riduzione dell’attività in una rete chiamata “default mode network” (McGeown et al., 2009). Questa rete, che include strutture frontali e sottocorticali, è un raggruppamento di aree cerebrali che si pensa siano attive quando le persone non sono coinvolte in alcun tipo di compito cognitivo specifico (risolvere problemi, programmare un comportamento etc…) ma, invece, lasciano “vagare” la propria mente in stato rilassato. Questo processo potrebbe permettere al paziente, durante una seduta, di ascoltare attivamente le parole del terapeuta focalizzandosi principalmente su di esse e nel frattempo inibendo i pensieri che normalmente interferirebbero con questo processo attenzionale.
Anche a livello della “performance” motoria, possiamo tracciare un parallelo tra il substrato neurale dell’ipnosi e dell’effetto placebo. Abbiamo precedente citato lo studio di  Muller e collaboratori (2012) dove è stato osservato come grazie all’ipnosi sia possibile aumentare la capacità di immaginare specifici movimenti (la cosiddetta immaginazione motoria), lavorando su aree cerebrali frontali e sulla corteccia cingolata anteriore. Ebbene, recentemente è stato possibile osservare come sia possibile, grazie al placebo (ovvero somministrando ai partecipanti della “finta” caffeina ma dicendo loro come questa potesse “aumentare la loro prestanza fisica”), diminuire la fatica durante un esercizio fisico e questa diminuzione sembra essere correlata all’attivazione di aree frontali, esattamente come per l’ipnosi, deputate alla preparazione a compiere un esercizio (Piedimonte, Carlino e Benedetti 2014).
Lo studio di come meccanismi simili alla risposta placebo agiscano ed interagiscano all’interno della risposta ipnotica è di certo una grande sfida, in grado però di aiutarci a comprendere quali aree cerebrali siano implicate nella generazione di un’aspettativa positiva e più in generale di sviluppare approcci sempre più mirati al paziente ed all’esito positivo di una (psico)terapia.
 
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IPNOSI E NEUROSCIENZE: PAROLE CHE CAMBIANO CERVELLI